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La sentenza della Corte di giustizia europea che, in sostanza, equipara le varietà vegetali ottenute con le nuove tecniche di miglioramento genetico (Nbt) agli ogm è stata accolta con entusiasmo da Slow Food. In un comunicato stampa l’associazione sciorina tutto il consueto armamentario di affermazioni fantasiose ma ne aggiunge un’altra che lascia allibiti: «un conto è affidarsi alla ricerca pubblica che opera nell’interesse di tutti i cittadini e non produce brevetti e un altro è ragionare a partire dall’operato di multinazionali che investono il loro budget e intervengono nel dibattito pubblico per il loro tornaconto economico».

Evidentemente Slow Food non sa che l’uso delle Nbt andrebbe proprio nella direzione di ridare peso alla ricerca pubblica. In Italia ci sono diversi istituti universitari che hanno già ottenuto ottimi risultati in questo campo e che potrebbero essere utilizzati se le varietà ottenute non fossero considerate ogm. È proprio l’enorme complessità (e i costi) della normativa sugli ogm che favorisce le diaboliche multinazionali. 

In sostanza, nella frenesia di bocciare qualunque cosa che non esisteva nei «bei tempi antichi», Slow Food dimostra di non sapere neanche di cosa parla.